SOLO UNA LETTERA D'AMORE
Dopo
il No Border Camp Thessaloniki volevo scrivere un testo, un report o
un’analisi. Sono
riuscita a scrivere solo una lettera d’amore. E’ questa. Senza
cronologia e senza distanza. Te la mando comunque. Nhandan
Tempo
staccato - staccato dal lavoro e dagli impegni familiari, staccato
alle prove e le performance che mi tengono in vita. Il viaggio inizia
al Romagna Center di Savignano, comincia banalmente con l’acquisto
dell’attrezzatura – zaino, tenda, saccoapelo, pila elettrica. E
un quadernino giallo per i contatti. Sono mesi che aspetto di andare.
Andare al mio posto, essere lì dove voglio essere, con loro –
quelli con cui voglio essere. Quelli che vorrebbero essere altrove –
migrando - e invece sono abbandonati e custoditi ostinatamente nel
parossismo schizofrenico e paradossale della politica europea sulla
gestione dei confini. Quelli che ora sono l’umanità nella sua
semplice realtà, senza mistificazioni, senza privilegi, senza
parola. Ma con la forza delle azioni. Quelli che ora sono dentro il
mio cuore, speranza e bellezza oltre e grazie a ogni differenza. E i
compagni. Quelli che amo e rispetto perché sono li’, nel posto
dove ha senso essere adesso. Gli altri sono lontani, stanno dentro i
teatri, nei musei, nei locali, nelle stanze, nelle analisi sull’arte,
l’attivismo, i vizi dei militanti, la complessità, l’impotenza,
le contraddizioni, soprattutto alla fine il proprio scorrere
meccanico del tempo incollati spalle al muro dal piccolo universo di
se stessi e quei pochi intorno con cui si condividono gusti e
linguaggi e gestualità. Io non ho tempo, e non ho spazio. Io sono
sul confine senza poterci essere, sono tra qui e li’ in una terra
di nessuno. Io mi sento nessun(A) e voglio andare a vedere dove sta
ORA il mondo. Voglio sparirci dentro con uno zainetto sulle spalle e
farmi travolgere e lasciare le ansie e le colpe del mio inquieto
sognarlo. Voglio sparire e perdermi tra quegli altri che ora sono I
Miei. Miei altri. Amore. E sempre paura. Paura della violenza
organizzata. Non paura di viaggiare sola, non di un arrivo alle
quattro del mattino in una periferia deserta e straniera, non paura
di quello che può succedermi individualmente. Paura della violenza
meccanica e dello scontro di moltitudini, della tecnologia
premeditata delle divise antisommossa, delle cariche a comando, di
lacrimogeni e spari e manganelli e soprattutto dei guanti. Dello
scattare della trappola. Paura dei caschi e giubbotti
antiproiettile e guanti neri (o blu scuro) indossati
intenzionalmente. In particolare dei guanti indossati
intenzionalmente. Paura delle frasi fatte, sonnambule,
e delle loro conseguenze materiali, spirali meccaniche di energia
cieca. Accecata, accecante. Mi trovo in mezzo. Mi sento sempre a un
passo da me, dietro le mie spalle. Credo e non credo a quello che a
quello che vedo e a quello che sento dentro. Cerco di capirmi. Mi
confronto con la mia orrenda vigliaccheria. Mi sorprendo di molta
stupidita’ circostante. Stupidita’ e presunzione anche dei
compagni e compagne. Dei miei amati. Di quelli con cui ci siamo
scelti. Di questi sconosciuti per cui ho voglia di esistere al mondo
ancora nonostante tutto, nonostante le storie oscure di cani mastini
lanciati su braccia inermi, braccia stanche di un viaggio infinito al
buio, dal buio, al nostro buio. Sento gli assoli e i remake della
nostra assemblea di centinaia e penso ci vorrebbe uno psicodramma
collettivo. Chi saprebbe farlo non è qui – ma allora dove è? e
cosa sta a fare?
Noi
siamo QUI.
Caro
H. So che tra la folla ci sei e fai quello che puoi. So che senti il
limite, conosci il linguaggio, sei consapevole dei rischi e prevedi e
agisci e sai di non poter mai sapere come andrà a finire alla fine.
So che sai la responsabilità di quello che hai mosso e che non puoi
pretendere di controllare e nemmeno lasciare a se stesso. Una
posizione paradossale, ma no, non da trickster – al contrario.
Camminare sul filo, con leggerezza, in mezzo a un frastuono amato,
desiderato e pronto a inghiottirti. Mi fido (solo) di te, perché sei
cosciente. So che ne porterai le conseguenze e che ti metteranno
tutto in conto, i tuoi, i nostri, gli altri e gli avversari. Pero’
ci volevi qui e ci siamo. Noi, tutti esotici gli uni agli altri –
chi più chi meno, universo che si muove in un cozzare di cerchi
concentrici. Noi che non ci riconosciamo, che camminiamo insieme, che
non ci capiamo del tutto ma non ci lasciamo comunque. E anche noi,
alcuni, sappiamo evocare la forza, incutere timore, travestirci
organizzarci e spingere sul limite con azioni simboliche ma concrete.
Le azioni sono simboliche ma il pericolo a cui ci si espone è più
che reale. E dunque le rende reali, reale il restare, reale
l’avanzare, reale la commozione, reale il coraggio. Alcuni tagliano
le reti. Le tagliano, le fanno crollare. Le abbattono. In prima
linea, chi a viso coperto chi a viso scoperto, chi piange per i
lacrimogeni e chi per gesti di gratitudine di chi ti ama oltre le
sbarre e dalla prigione ti dice grazie e di resistere per
lui/lei/loro. Seguo con lo sguardo chi raccoglie pietre, urto nella
fuga chi raccoglie foto, guardo con familiarità professionale di
performer chi ha un costume e si trasforma in essere fantastico
monocromo e senza forma - fazzoletto sulla bocca, grandi occhiali
scuri da sole o da sci. Chi a capo scoperto e un’amica per mano.
Chi - anziano - ride e corre e scherza in spagnolo perché che altro
fare in questa situazione di spari e fumo e tragicomico fuggi fuggi
generale?
Al
sesto giorno sono stanchissima, imparo a dormire come i cani in mezzo
alle conversazioni, seduta al tavolo tra la gente, a riposarmi a
sprazzi senza vergogna, e funziona. Vado avanti.
C’è
il profilo Greco di E. e del suo compagno. Parliamo per ore con K.
sedute all’angolo del campo. Parlano nelle aule, ascolto e sono
cose interessanti. Ci sono gli eroi/eroine della No Border Kitchen.
Ci sono R. con tanti capelli biondi e il suo amore bellissimo e di
fuoco, dalla Scozia spesso nomadi per desiderio, sono una meraviglia
sempre, qualunque cosa fanno, li guardo a momenti e mi sento felice.
Poi all’improvviso siamo tanti, tantissime. Ci siamo tutti.
Il
campo risuona di molte lingue di molte voci, discorsi e canti e
preghiere. Si intrecciano linguaggi di radici diverse, paradigmi
sconosciuti gli uni agli altri. I migranti riempiono il campo, qui
dove finalmente viviamo insieme, usciamo insieme nella città e sono
le loro voci a dirci come fare. E’ lotta e festa e gioia nei viali
e sul mare. La città è per noi, per tutti. Cammino con care
compagne tutte venute da lontano, M. e N. e A. E’ di per se
vittoria contro tutto il resto nonostante tutto. E’ di per se
quell’altrove irraggiungibile che ora è qui. Qualcuno si tuffa in
acqua perché lo vuole. Un corteo, ma è la prima volta. La prima
volta che sono in un corteo cosi’. Come e’ successo? E’
successo – è questo che conta. Può succedere ancora. Di nuovo e
di più.
Nhandan
Chirco - per No Border Camp Thessaloniki 2016
(Cesena
– Novi Sad / Dicembre 16)
Nessun commento:
Posta un commento